parrocchia Santa Barbara - page 121

“Non nobis Domine”: sessant’anni di fede
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“Non nobis Domine”: sessant’anni di fede
carcerato. Un concerto che ha piacevolmente stupito noi organizzatori per la
partecipazione che ha avuto e per la generosità delle offerte raccolte, e che
grazie agli interventi, ci ha fatto per un giorno avvicinare e comprendere un
po’ meglio una realtà a cui spesso guardiamo con diffidenza.
"Depositiamo un documento e lasciamo borse e telefonini (addio mondo?)
in un armadietto di cui ci consegnano la chiave. Attraversiamo una sorta di
metal-detector, poi è un susseguirsi di corridoi, portoni pesanti e a sbarre.
Seguiamo don Antonio che cammina deciso (noi un po' meno) e saluta per
nome alcuni detenuti. Giunti nella sala-chiesa, ci presenta Pietro, che è già
pronto a suonare la chitarra con noi. Accordare gli strumenti e le voci,
suddividersi tra noi e i detenuti i compiti per l'animazione della Messa
stempera un po' l'emozione. Quando tutti sono arrivati, accompagnati dagli
agenti di custodia, è il Signore a prendere per primo la Parola. Su invito di
don Antonio smette il brusio e si ascolta. Tra quelle mura, di fronte a quei
volti accanto ai nostri, scopriamo una potenza della Parola di Dio che
troppe volte abbiamo neutralizzato con un ascolto sbrigativo e abitudinario.
Proprio lì, in carcere dove nulla ci è familiare, il Vangelo risuona più
vicino e azzeccato più che mai. E don Antonio semplicemente e
sapientemente spiega come “oggi questa Scrittura si compie” per ciascuno:
italiano,
colombiano,
venezuelano,
algerino,
marocchino,
nigeriano.... Dopo la S. Messa alcuni detenuti presentano dolci tipici di
questi vari spicchi del mondo racchiuso nel carcere veneziano. Spiegano gli
ingredienti e le tradizioni legate a questi piatti preparati in cella: qualcuno
servendoli si scusa perchè in carcere non vengono bene come a casa.
Cerchiamo di “attaccar bottone”: “Da dove vieni?”, “Da quanto sei
qui?”. Qualcuno, senza che lo chiediamo, spiega anche il motivo della sua
detenzione. Restiamo con una decina di loro. Soprattutto cantiamo. Ne
hanno una gran voglia e vanno a squarciagola sui pezzi che conoscono. Il
tempo vola e l'agente viene a riprenderci per condurci all'uscita. Ci
lasciamo fra strette di mano e ringraziamenti. Suona meglio un “ciao” che
un “arrivederci” fra qualche mese: per loro significherebbe essere ancora
“dentro”. Una volta fuori noi scherziamo un po' sulla libertà riguadagnata,
ma subito sentiamo il bisogno di scambiarci le vere impressioni.
Sull'autobus, con la gente che ci guarda sbalordita, ci raccontiamo le
nostre reazioni compreso quello spessore insolito avvertito nella Parola di
Dio e nella predica. C'è voglia di capire fino in fondo l'esperienza che oggi
abbiamo vissuto per farne tesoro. “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”
(Mt 25,36). Signore, torneremo ancora."
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